CAMBIO DI RELIGIONE E INDIFFERENZA NEI CONFRONTI DEL MARITO: L’ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE E’ CONFIGURABILE IN CAPO ALLA MOGLIE.
I giudici di merito, ufficializzata la separazione della coppia, escludevano che vi potesse essere un addebito della separazione per il cambio di religione della donna. Questo perché la frequentazione di una congregazione religiosa da parte della donna non poteva, di per sé, assumere rilievo determinante per la pronuncia di addebito a suo carico, dato che non risultava dimostrato che un simile comportamento avesse comportato una violazione dei doveri coniugali e assunto rilievo causale nel provocare l’intollerabilità della convivenza della coppia. L’uomo non ci stava e ricorreva in Cassazione dove evidenziava che la donna avesse aderito ad un credo religioso diverso dal suo e assumendo un comportamento contrario ai doveri conseguenti al rapporto matrimoniale e concretizzatosi nel disinteresse verso il coniuge. Questo, inevitabilmente, aveva avuto un peso specifico rilevante nell’origine dell’irreversibile crisi matrimoniale. La Corte evidenziava che, in generale, il mutamento di fede religiosa e la conseguente partecipazione alle pratiche collettive del nuovo culto, configurandosi come esercizio dei diritti garantiti dalla Costituzione, non potevano di per sé considerarsi come ragione di addebito della separazione, a meno che l’adesione al nuovo credo religioso non si traducesse in comportamenti incompatibili con i concorrenti doveri di coniuge previsti dal Codice Civile, in tal modo determinando una situazione di improseguibilità della convivenza. La Corte evidenziava poi che i giudici di merito, al fine di sostenere che l’allegata violazione dei doveri coniugali da parte della donna fosse la conseguenza di una rottura dell’unione matrimoniale già avvenuta e non la causa del fallimento della coppia, avevano inteso valorizzare una situazione di reciproca sostanziale autonomia di vita, testimoniata dal fatto che i due coniugi dormivano separati, ma non avevano spiegato se una simile situazione risalisse ad epoca antecedente. Dunque, la negazione dell’esistenza di un nesso tra i comportamenti della donna ed il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza coniugale era rimasta affidata alla constatazione di una situazione di fatto priva di sicura collocazione temporale. Inoltre, le testimonianze non si limitavano a riferire di atteggiamenti di disaffezione costituiti dal fatto che la donna si era rifiutata di cucinare, di occuparsi della casa e del bucato, ma raccontava pure di continue denigrazioni e richieste di soldi della donna nei confronti del marito. Tali condotte, del tutto ignorate in Appello, se consistite in un comportamento moralmente violento, dovevano essere considerate ontologicamente incompatibili con gli obblighi di assistenza morale e materiale e collaborazione nell’interesse della famiglia a cui ciascuno dei coniugi era tenuto e possono assumere incidenza causale effettiva e preminente rispetto a qualsiasi causa eventualmente preesistente di crisi matrimoniale. La Corte dunque accoglieva il ricorso, rinviando alla Corte d’Appello per una decisione in tal senso tenendo conto dei principi enunciati.
Cass. civ., sez. I, ord., n. 19502 del 10.7.2023
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