DEFINISCE “UNO SCHIFO DI PERSONA” IL SINDACO SU FACEBOOK: CONDANNATO PER DIFFAMAZIONE.
La vicenda si svolgeva in un piccolo comune in provincia di Pesaro dove un cittadino si lasciava andare a critiche rivolte al Sindaco sul proprio profilo Facebook, accusandolo di avere ignorato il parere espresso in un referendum dai cittadini sull’ipotesi di fusione con alcuni Comuni limitrofi. Il commento veniva espresso in questi termini: “Che schifo di persona! Mi viene da vomitare” e gli costava un’accusa per diffamazione. Per i giudici di merito non c’erano dubbi lo condannavano sia in primo che secondo grado a pagare 1.000 euro di multa e a risarcire i danni arrecati al sindaco.
L’uomo non ci stava e ricorreva in Cassazione, dove il suo legale sosteneva che il sindaco non avesse rispettato, pur essendosi impegnato in tal senso, il referendum indetto tra i cittadini di tre differenti Comuni, referendum che aveva dato esito negativo circa la fusione tra quei Comuni, ma per giustificare tale scelta il sindaco aveva affermato, in un’intervista rilasciata il giorno successivo all’assemblea regionale, che, trattandosi di mero referendum consultivo, egli non era tenuto a rispettarne l’esito e ciò aveva scatenato molte polemiche sul web, nel cui ambito il cittadino aveva pubblicato una serie di commenti politici, commenti in cui si inseriva anche la frase reputata diffamatoria. Secondo il legale, quindi, non poteva ignorarsi il diritto di critica esercitato dal suo assistito. Secondo la Corte, però, era evidente la non tollerabilità del commento condiviso online dal cittadino, in quanto l’espressione “Che schifo di persona! Mi viene da vomitare”, utilizzata dal cittadino in riferimento al sindaco, costituiva un argomento rivolto contro la persona e che non rispettava il limite della continenza, sia perché costituiva un’offesa alla persona e non al suo operato politico, per l’appunto, sia perché era formulata con l’utilizzo di termini apertamente dispregiativi e volgari. E non si scorgeva alcuna funzionalità della frase rispetto alla manifestazione di un’opinione sull’operato politico della persona offesa. Inoltre, l’espressione non era inserita in un commento più ampio né accompagnata da ulteriori espressioni che potessero inquadrare il senso di quanto affermato. Impossibile, poi, fare ricorso a una contestualizzazione della frase, poiché il cittadino faceva riferimento in modo generico alla generale polemica scatenata su Facebook dalla pretesa incoerenza del sindaco ma non precisava come quello specifico commento potesse inserirsi nell’ambito di un discorso più ampio. La Corte dunque confermava la condanna per diffamazione.
Cass. pen., sez. V, n. 29621 del 10.7.3034
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