BODYSHAMING SU FACEBOOK: E’ DIFFAMAZIONE?
Sottolineare in un post pubblico su Facebook un palese difetto fisico di una persona potrebbe integrare il reato di diffamazione. Così finiva sotto accusa un uomo, colpevole di aver dileggiato la persona citata nel post Facebook condiviso online. Rilevante soprattutto il fatto che ad accompagnare lo scritto ci fossero alcune emoticon simboleggianti grasse risate e chiaramente mirate a deridere la persona a cui faceva riferimento il post. L’accusa sosteneva dunque che l’uomo avesse offeso la reputazione di un altro uomo comunicando attraverso il social network Facebook e facendo espresso riferimento ai suoi deficit visivi, con frasi inequivocabili, come “punti di vista, anche storta” e “mi verrebbe da scrivere la lince, ma ho rispetto per la gente sfortunata”. I giudici di primo grado condannavano la persona sotto accusa, ritenendola colpevole del reato di diffamazione e obbligandola a pagare 800 euro di multa e a versare 2000 euro come risarcimento alla persona offesa. Di parere diverso sono, invece, i giudici d’Appello, i quali ritenevano fosse più logico, a fronte dei dettagli dell’episodio oggetto del processo, parlare di mera ingiuria, e, di conseguenza, assolvevano l’uomo sotto processo poiché il fatto non costituiva reato. La vicenda finiva in Cassazione dove la persona offesa evidenziava, tra le altre cose, che i messaggi condivisi online avevano raggiunto non solo la persona la cui reputazione era stata lesa, bensì anche una moltitudine di persone. Irrilevante, secondo il legale, il fatto che comunque la persona offesa avesse avuto la possibilità d’interloquire, in quel contesto comunicativo, con l’autore del post. Secondo la Corte la condotta di chi mette alla berlina una persona per talune caratteristiche fisiche, comunicando con più persone, poteva sicuramente considerarsi un’aggressione alla reputazione di quella persona, la reputazione di un individuo costituiva un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona. Se è vero, come scrivono i giudici d’Appello, che la parte civile ha potuto ed era in grado di replicare alle offese diffuse online, è vero anche che tale possibilità si era concretizzata in un momento successivo alla pubblicazione delle offese sul social network. In caso di offese espresse per il tramite di piattaforme telematiche con servizio di messaggistica istantanea e comunicazione a più voci era solo il requisito della contestualità tra comunicazione dell’insulto e suo recepimento da parte della persona offesa a configurare l’ipotesi dell’ingiuria. Se manca il requisito della contestualità sarà l’offeso ad essere estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e a non essere posto in condizione di interloquire con l’offensore e quindi si profilava l’ipotesi della diffamazione. Di questo dovranno tenere conto i giudici d’Appello, chiamati dalla Cassazione a riprendere in esame il caso e a valutare con maggiore attenzione la condotta tenuta online dall’uomo sotto processo. La Corte dunque accoglieva il ricorso e rinviava alla Corte d’Appello per nuova pronuncia.
Cass. pen., sez V, n. 2251 del 19.1.2023
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