SE LA CONVIVENZA VIENE INTERROTTA NON PUO’ PARLARSI DI MALTRATTAMENI IN FAMIGLIA.
Un uomo veniva condannato per maltrattamenti in famiglia con riferimento ad eventi verificatisi in epoca successiva alla cessazione della convivenza more uxorio. Tramite il suo legale ricorreva in Cassazione, lamentando l’errore da parte della Corte d’Appello di aver basato la condanna esclusivamente sulle dichiarazioni rese dalla vittima. La Cassazione riteneva il suo ricorso fondato: le condotte poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell’altro, dopo la cessazione della convivenza, non potevano ricondursi al reato di maltrattamenti in famiglia, potendosi ravvisare l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori, ovvero, in difetto dei requisiti previsti da tale fattispecie, ulteriori e diverse ipotesi di reato come lesioni personali e minacce, terminata la convivenza veniva meno la comunanza di vita e di affetti, nonché il rapporto di reciproco affidamento che giustificano la configurabilità della ipotesi di maltrattamenti in famiglia. La Cassazione ritiene sia necessario verificare se e quali relazioni affettive non tradizionali possono rientrare nella nozione di “famiglia” o “convivenza”. Si evidenzia, infatti, che è la frequentazione prolungata e la continua possibilità per il soggetto maltrattante di interagire con la vittima che descrivono la fattispecie di maltrattamenti in famiglia. La Corte di Cassazione annullava quindi la sentenza impugnata e rinviava alla Corte d’Appello di Cagliari, evidenziando come l’interruzione della convivenza determinasse il venir meno del rapporto di necessaria prossimità tra vittima ed autore degli illeciti e, quindi, impediva la configurabilità del reato di maltrattamenti.
Cass. pen., sez. VI, n. 45520 del 30.11.2022
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