Un medico di pronto soccorso veniva accusato di omicidio colposo per aver cagionato, con condotte omissive, la morte di un paziente, verificatasi a causa dell’insorgenza di un arresto cardio-circolo-respiratorio secondario ad una peritonite da perforazione del tratto digestivo. La responsabilità che veniva addebitata al medico era quel di non aver valutato lo stato patologico in atto, omettendo una completa e analitica anamnesi del paziente, nonché di effettuare un idoneo percorso diagnostico, limitandosi a un esame superficiale, disponendo le dimissioni del paziente senza procedere né ad analisi di laboratorio né ad indagini diagnostico-strumentali che avrebbero consentito di far luce sul fenomeno ulceroso in atto, così impedendo un pronto e corretto inquadramento diagnostico, aggravando la prognosi del paziente e ritardandone il necessario intervento chirurgico.
Il Tribunale lo condannava, la Corte d’Appello lo assolveva, e le parti civili proponevano ricorso in Cassazione.
Secondo la Corte, il medico aveva un obbligo di garanzia, definito dalle specifiche competenze che erano proprie di quella branca della medicina d’emergenza, in cui rientravano l’esecuzione di alcuni accertamenti clinici, la decisione circa le cure da prestare e l’individuazione delle prestazioni specialistiche eventualmente necessarie, nonché la decisione inerente al ricovero del paziente e alla scelta del reparto reputato più idoneo. Il medico doveva compiere gli accertamenti diagnostici necessari per accertare quale fosse la patologia effettivamente patita e adeguarvi le cure. L’esclusione di ulteriori accertamenti poteva essere giustificata solo dalla raggiunta certezza che una di queste patologie potesse essere esclusa. Fino a quando il dubbio diagnostico non fosse stato risolto, invece, il medico non doveva accontentarsi del raggiunto convincimento di aver individuato la patologia esistente quando non fosse in grado di escludere patologie alternative. Il medico di Pronto Soccorso era, quindi, tenuto a fare controlli e a indirizzare, eventualmente, verso altri specialisti.
Per addebitare la morte al medico, però, era necessario il giudizio controfattuale e cioè chiedersi se ulteriori indagini diagnostiche avrebbero impedito la morte del paziente. Nel caso di specie, la Corte d’Appello, assolvendo il medico, non aveva svolto il giudizio controfattuale, conformandosi al parere dei consulenti che, invece, negavano una certezza assoluta dell’efficacia salvifica. E per tali ragioni la sentenza assolutoria veniva annullata dalla Cassazione, la quale rinviava alla Corte d’Appello per fini civili.
Cass. pen., sez. IV, n. 45602 del 13.12.2021
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