Due neogenitori, dopo la nascita del figlio, affetto da sindrome di Down, decidevano di citare in giudizio la clinica in cui si era svolto il parto e in cui era nato il bimbo, chiedendo un risarcimento danni, addebitando alla struttura ospedaliera di non averli informati della possibilità di effettuare una amniocentesi o un altro esame in grado di individuare la malattia e di non avere prescritto ed effettuato esami diagnostici durante le prime tre settimane di gravidanza, consigliate per le gestanti di età avanzata ed utili ad individuare la malattia di cui era affetto il feto. La richiesta di risarcimento veniva respinta dai giudici di merito, i quali ritenevano che una indagine fatta nelle prime settimane di vita del feto non avrebbe consentito di individuare la trisomia e la sindrome di Down, per ciò che riguardava, invece, la presunta mancanza di consenso informato, i Giudici sottolineavano che non vi era prova della volontà della coppia di abortire in caso di accertata malformazione del feto. Ricorsi in Cassazione, i genitori non vedevano però accogliere le loro doglianze, in quanto anche i giudici di terzo grado escludevano fosse addebitabile qualche responsabilità alla clinica, in quanto neanche dall’esame morfologico eseguito alla diciannovesima settimana era dato evincere la malformazione del feto, ma soprattutto, per quanto riguardava il consenso informato, vi era il principio per cui chi agiva doveva dare prova che la donna incinta, se adeguatamente informata, avrebbe deciso l’interruzione della gravidanza, ma tale prova non era stata fornita dai due genitori, i quali, al contrario non avevano neanche fatto cenno alla possibilità di abortire in caso di accertata malformazione del feto. Pertanto, nessun risarcimento era dovuto dalla clinica.
Cass. civ., sez. III, sent., n. 36645 del 25.11.2021
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