Un uomo maltrattava l’ex fidanzata tentando anche un approccio fisico palpeggiandole il seno, per questo veniva condannato dai giudici di merito per violenza sessuale, oltre che per maltrattamenti in famiglia relativamente ad altre condotte da lui tenute.
Ricorreva in Cassazione tentando di fornire la propria versione, sostenendo che il palpeggiamento al seno dell’ex compagna andasse inquadrato come approccio sessuale compiuto senza alcuna esplicita manifestazione di dissenso da parte della donna e, dunque, con il suo implicito consenso. Per la condanna di maltrattamenti in famiglia sosteneva invece che mancasse il requisito di una convivenza di fatto stabile e duratura tra lui e la donna, essendosi invece trattato di una coabitazione instabile e precaria, durata solo cinque mesi e non dettata da un progetto di vita a lungo termine basato su reciproca solidarietà e assistenza.
La Cassazione però non si faceva convincere da nessuna delle tesi difensive. Vi erano di fatti diversi elementi su cui basarsi: la donna era stata picchiata e maltrattata per non essersi sottomessa alle pretese sessuali dell’uomo; le tensioni che, proprio il giorno precedente ai fatti, avevano indotto la donna a contattare telefonicamente l’ex partner per lamentarsi della condotta da lui tenuta nei confronti di terze persone, nonché la stessa dinamica dell’inseguimento stradale avvenuto il giorno dei fatti, escludevano che l’uomo potesse confidare sul consenso della donna ad un approccio sessuale, in auto, in una piazzola di sosta. Era quindi impossibile ritenere che l’uomo potesse confidare in un consenso tacito della donna, che peraltro al momento era impegnata in una conversazione telefonica con il proprio responsabile di lavoro, cercando di allontanare l’uomo con il gomito e quindi manifestando un chiaro dissenso.
Vi era un contesto di prevaricazione, minaccia e violenza che connotava la relazione ed in particolare quel giorno era evidente il rifiuto implicito da parte della donna. Per ciò che riguardava i maltrattamenti, l’abituale condotta vessatoria tenuta dall’uomo nel pur breve periodo in cui durò la convivenza more uxorio con la donna (che fu costretta ad interromperla proprio per sottrarsi ad una insostenibile situazione di sofferenza pur dopo essere rimasta incinta) era sufficiente, anche nel caso in cui fosse mancata una prospettiva di stabilità. Non rilevava la breve durata della convivenza, poiché per il reato di maltrattamenti era sufficiente la ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale. Non per ultimo, lo stato di inferiorità psicologica della vittima non doveva necessariamente tradursi in una situazione di completo abbattimento e non rilevava che dopo aver interrotto la convivenza, la persona offesa decidesse di riprendere i rapporti, anche sessuali, con la persona sotto processo, finendo poi con il subire nuove aggressioni.
La Corte quindi confermava la condanna dell’uomo e rigettava il ricorso.
Cass. pen., sez. III, , n. 34582 del 17.9.2021
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