SFRUTTA CINGHIALI DI ALLEVAMENTO COME PREDE PER BATTUTE DI CACCIA DI ALLENAMENTO: CONDANNATO PER MALTRATTAMENTO DI ANIMALI.
Il titolare di un’azienda agricola in Piemonte impiegava in modo discutibile i venti cinghiali presenti da lui allevati. Si accertava, infatti, che nel recinto dove erano collocati i mammiferi venivano ripetutamente inseriti cani in addestramento da seguita al cinghiale.
Il tribunale riteneva evidente l’abuso compiuto dall’imprenditore agricolo, il quale era ritenuto colpevole di avere detenuto i venti cinghiali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze, sottoponendoli allo stress dovuto al ripetuto inserimento nel recinto di cani da caccia. Veniva dunque condannato a pagare un’ammenda di 3000 euro.
Ricorso in Cassazione, l’imprenditore tentava di mettere in discussione le accuse a suo carico, evidenziando, innanzitutto, che i veterinari dell’Azienda sanitaria locale avevano dato atto che i cinghiali presenti nell’allevamento erano in buone condizioni di salute, nutrizione e detenzione, non potendosi, dunque, ipotizzare il reato di maltrattamenti a danno di animali. Inoltre, l’uomo sosteneva che la legge consentiva l’addestramento, l’allenamento e le gare di cani anche su fauna selvatica, e quindi, la condotta a lui attribuita non poteva essere oggetto di sanzione, poiché ammessa dalla legge.
La Cassazione respingeva, però, tali tesi difensive, ritenendo inequivocabile il quadro probatorio. Era stato, infatti, appurato che il gestore dell’azienda agricola utilizzava una parte del suo terreno, debitamente recintato, per l’addestramento di cani alla caccia al cinghiale. In particolare, all’interno del recinto venivano collocati diversi cinghiali che, inseguiti da molteplici cani in fase di addestramento (e dai loro padroni che li incitavano), fuggivano in tutte le direzioni all’impazzata, terrorizzati dagli inseguitori. Tali battute di caccia simulate si svolgevano anche tre volte alla settimana e i cinghiali erano spaventati, ovviamente.
Tali ripetuti addestramenti illeciti erano causa di terrore e sofferenze per i cinghiali, come evincibile dal comportamento di fuga irrazionale degli animali, sintomatico dell’evidente stato di sofferenza continuata.
La Corte precisava che la legge prevedeva che l’addestramento di cani per la caccia avvenisse in zone predeterminate ed in periodi prestabiliti, da individuarsi nei piani faunistico-venatori e muoveva dal presupposto che tale attività, di per sé produttiva di sofferenze per gli animali utilizzati come prede, fosse attuata secondo modalità, tempi e periodi predeterminati e solo entro tali limiti poteva ritenersi consentita. Nel caso di specie l’addestramento di cani per la caccia, pur essendo consentito a norma della l. n. 157 del 1992, si era realizzato al di fuori della regolamentazione prevista.
Pertanto la Corte dichiarava inammissibile il ricorso.
(Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 19987, 20.5.2021)
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