PROFESSORESSA CONDANNATA PER AVER ACCUSATO IL COLLEGA DI MANIPOLAZIONI PSICOLOGICHE SUGLI ALUNNI.
Una docente accusava su Facebook un collega d’istituto di manipolare psicologicamente gli studenti fomentando il loro dissenso in relazione alla riforma della scuola prevista dal governo Monti.
Il professore additato come manipolatore citava in giudizio la donna e chiedeva che venisse condannata per diffamazione. Tuttavia, innanzi il Tribunale la donna veniva assolta alla luce del fatto che le espressioni presenti nel testo, pur avendo nella comune accezione linguistica una senso dispregiativo nei confronti del destinatario, non si risolvono in un attacco personale sul piano individuale, bensì in guisa di una manifestazione di una posizione di pensiero dissenziente delle metodologie didattiche del professore, in un quadro generale di disistima del collega, ai limiti di una ammissibile facoltà di critica, non essendo censurata la persona in sé e per sé. Dunque, la donna aveva solo espresso un parere sul collega, esercitando il proprio diritto di critica.
Non concorde la Corte d’Appello che riteneva la donna colpevole del reato di diffamazione e la condannavano al pagamento di 800 euro a titolo di risarcimento del danno morale.
La donna ricorreva in Cassazione e la Corte confermava la condanna della professoressa ritenendo l’uso dell’aggettivo “spregevole” per il professore, teso a screditarne la persona e non a esprimere un parere sul suo lavoro come insegnante. Ciò anche alla luce della definizione, fornita dal dizionario della lingua italiana Zanichelli, del termine “manipolazione” come l’atto di manovrare per raggirare o imbrogliare. L’utilizzo di tale termine per descrivere l’operato del professore attribuiva allo stesso la qualità di soggetto che mirava a condizionare le menti dei propri studenti, delineando un comportamento assolutamente contrario agli scopi educativi e formativi dell’insegnamento. Ad aggravare il quadro, inoltre, la qualità di professoressa della ricorrente e quindi la presumibile conoscenza del significato del termine e la scelta di utilizzare uno strumento di comunicazione pubblico quale è Facebook.
La Corte dunque confermava la condanna della donna al risarcimento del danno, nonostante la stessa avesse chiesto scusa e avesse anche oscurato la propria pagina Facebook.
(Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 13979 del 14.4.2021)
0 commenti