CELLULARE ACQUISTATO EVITANDO I CANALI USUALI DI COMMERCIALIZZAZIONE: SI PUO’ PARLARE DI RICETTAZIONE.
Una donna veniva trovata in possesso di un cellulare di provenienza illecita, e per questo finiva sotto accusa. Prima il Tribunale, poi la Corte d’Appello, la condannava perché ritenuta colpevole di ricettazione. Tramite il suo difensore ricorreva in Cassazione, ritenendo che la decisione pronunciata fosse erronea poiché fondata sull’affermazione di responsabilità, sulla mancata allegazione da parte della donna di fatti a sua discolpa, senza però considerare che il silenzio serbato sulle modalità di ricezione del bene non era qualificabile automaticamente come provava diretta della colpevolezza, potendo anche rispondere ad una strategia difensiva. Nonostante le tesi difensive, la Cassazione confermava la linea tracciata in Appello, la responsabilità della donna per il delitto di ricettazione risultava evidente alla luce dell’accertata, e mai convincentemente giustificata, disponibilità del telefonino di provenienza furtiva in oggetto, disponibilità acquisita fuori dai canali ordinari e legittimi di circolazione. La Corte d’appello aveva quindi applicato correttamente il principio secondo cui ai fini della configurabilità del reato di ricettazione, la prova dell’elemento soggettivo poteva essere raggiunta anche sulla base dell’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale era sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede.
Peraltro, non poteva essere ignorato che ricorreva il dolo di ricettazione nella forma eventuale quando la persona aveva consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, non limitandosi ad una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa. Per escludere il dolo era sufficiente soltanto fornire una attendibile spiegazione dell’origine del possesso delle cosa.
In questo caso l’acquisto di un telefono cellulare fuori dai canali ufficiali di commercializzazione era dato sufficiente per presumere il reato di ricettazione, e dunque rendevano definitiva la condanna della donna a 2000 euro di ammenda, più spese processuali, dichiarando inammissibile il ricorso.
(Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 25578 del 9.9.2020)
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