COMMENTO FORTE AL VIDEO DEL MEDICO ADDITATO COME OMOFOBO. ESCLUSA LA DIFFAMAZIONE
“Spero che le figlie siano lesbiche e sposino dei gay!” queste le parole pronunciate in diretta e poi diffuse on line con un video caricato su YouTube da un uomo verso il medico che attraverso una emittente locale compiva alcune osservazioni sul tema dell’identità sessuale, sottolineando l’importanza di rispettare il proprio patrimonio cromosomico e spiegando che chi è omosessuale fa una scelta contraria a ciò che gli ha indicato la natura, sostenendo l’importanza di una chiara identità sessuale, spiegando di non volere un figlio gay. La frase messa nero su bianco online non era sufficiente però per arrivare a una condanna per diffamazione. Il medico segnalava alla polizia postale i diversi scritti a lui diretti, e i rispettivi autori finiscono sotto processo. In questo caso sul banco degli imputati si ritrova l’uomo che, visto il video, reagiva dicendo : “Spero che le figlie del medico siano lesbiche e sposino dei gay!”.
Per l’accusa la frase scritta online era sufficiente per arrivare a una condanna per diffamazione. E di questo avviso sono anche i giudici di merito: difatti, prima in Tribunale e poi in Appello, l’uomo veniva ritenuto colpevole di avere offeso on line la reputazione del medico. La Cassazione però faceva cadere l’accusa, ricordano che la diffamazione consisteva nella lesione della reputazione, lesione che poteva essere realizzata mediante espressioni verbali ma doveva trattarsi di attribuzioni di qualità negative alla persona offesa, ovvero di espressioni che gettavano, comunque, su di lei una luce negativa. Però in questo caso l’internauta reagiva alle parole del medico augurandogli di avere delle figlie lesbiche che sposassero dei gay e tale augurio, osservano i giudici, non era attributivo di qualità negative alla persona del medico. Le espressioni augurali sono rivelatrici della personalità di chi le formula, poiché ne svelano i gusti e la cultura, non già di chi le riceve,
Nessuna diffamazione, dunque, per la Corte di Cassazione.
(Corte di Cassazione, sez. V Penale sent. n. 17944/20 dell’11.6.2020)
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